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Durata: 18m

Apro gli occhi.

Non so dove mi trovo, e la sensazione è quella di essere stato trascinato con forza dentro uno spazio che il mio corpo non riesce ancora a riconoscere. Mi sembra di essermi svegliato nel mezzo di qualcosa già iniziato, qualcosa che non mi ha aspettato, e ora tocca a me rincorrerlo, capire in corsa dove sono e cosa sta succedendo.

Mi guardo intorno cercando punti fermi, ma tutto è sfalsato, una versione imperfetta di un ambiente che dovrei conoscere. La mente però insiste con una certezza insolita: So dove porta quel corridoio: in fondo c’è la cucina, oltre quella porta una scala. La mappa della casa è nella mia testa, ma ogni dettaglio visivo smentisce questa sicurezza. Gli arredi non mi dicono nulla, i colori sono sbagliati, l’atmosfera è estranea. 

È come se qualcuno avesse cercato di ricostruire una casa che ricordo soltanto a metà, usando descrizioni incomplete, o pezzi presi da luoghi sbagliati. So come muovermi, ma ogni passo che faccio mi conferma che questo non è il mio posto.

Cammino per la casa con passo lento, e il suono dei miei stessi movimenti diventa presto l’unico realmente percepibile, mentre tutto il resto appare ovattato, distante, immerso in un silenzio spesso e irreale. Qualche voce arriva da lontano, spezzata, sovrapposta al suono confuso di un notiziario che proviene da una televisione accesa in un’altra stanza. Capisco, senza nemmeno doverci pensare, che dev’essere il salone: secondo quella mappa mentale che conosco — anche se non so da dove venga — è lì che dovrebbe trovarsi la TV.

Fuori è giorno, ne sono certo, ma il cielo che si intravede dalle finestre ha un colore sbagliato, una tinta opaca e solida che non riflette nulla, che inghiotte la luce invece di restituirla. Sembra che qualcuno abbia steso sul cielo una vernice fresca, scura, impenetrabile. Non c’è pioggia, né vento, nessun segno di tempesta, solo questo buio compatto che grava su tutto e che toglie respiro anche dentro casa, lasciando ogni stanza in una penombra scomoda, più inquietante che protettiva, come voluta, studiata per far sentire fuori posto.

Provo a schiacciare ogni interruttore che incontro, uno dopo l’altro, sperando in una luce che spezzi almeno un angolo di quell’ombra. Ma niente si accende. Nessuna reazione, nessun clic, nessun segnale di corrente. I fili ci sono, gli impianti anche, eppure la luce non arriva. Allora capisco che dovrò farmene una ragione: resterà così, sospesa in questa penombra piena di angoli ciechi e dettagli sfuggenti. E io dovrò attraversarla comunque, anche se ogni senso dentro di me suggerisce di fare il contrario.

 

Ma non provo davvero paura. Non ancora, almeno. Più che altro avverto quella sensazione difficile da spiegare, quella spinta interna che non nasce da un pensiero cosciente ma da qualcosa di più profondo, forse una necessità, forse una direzione impressa nel corpo. E allora mi lascio guidare da quella forza e raggiungo il salone, cercando di capire chi c’è e cosa stanno guardando.

Quando entro nel salone, la prima cosa che noto è la televisione accesa nell’angolo opposto della stanza,una piccola luce tremolante che fatica a penetrare l’oscurità. Davanti allo schermo ci sono tre persone sedute, immobili, disposte in modo ordinato ma informale, con il corpo rilassato e lo sguardo — o almeno, quello che dovrebbe essere uno sguardo — fisso verso le immagini.

All’inizio non mi colpiscono davvero: sono vestite in modo ordinario, con abiti neutri, senza alcun dettaglio che richiami l’attenzione, come se qualcuno le avesse volutamente spogliate di ogni particolarità, rendendole genericamente umane ma del tutto anonime. Potrebbero essere chiunque, e per qualche istante non ci faccio troppo caso, distratto dal rumore ovattato della TV che continua a parlare con la solita voce piatta.

Poi li guardo meglio.

E mi accorgo che qualcosa non torna.

Perché a ben vedere non hanno un volto. Dove dovrebbero esserci occhi, bocca, espressioni, c’è solo una superficie liscia, uniforme, come cera colata o plastica lavorata troppo in fretta. Le teste sono perfettamente umane nella forma, ma del tutto prive di tratti riconoscibili, come manichini seduti a guardare il telegiornale, partecipi ma inaccessibili.

Eppure, nonostante quell’assenza così evidente, qualcosa in loro mi appare stranamente familiare.

Non saprei dire chi siano, non ho alcun ricordo preciso legato a loro, eppure sento, con la forza cieca di certe emozioni che non hanno bisogno di prove, di averli già incontrati, forse in un’altra casa, in un altro tempo, o in un sogno dimenticato da troppo.

La loro presenza è silenziosa ma pesante. Sembrano portare addosso un’identità invisibile, qualcosa che si percepisce senza poterla nominare, come se al loro interno abitassero nomi che una parte di me riconosce e un’altra ha dimenticato.

Forse è proprio l’assenza di un volto a renderli impossibili da ignorare.

La televisione continua a trasmettere, indifferente, con quel suo bagliore intermittente che danza sulle pareti e quella voce fuori campo che parla senza emozione, neutra, piatta, disturbante nella sua calma irreale. Il volume è basso ma sufficiente a capire che si tratta di un notiziario, anche se il tono ricorda più un oroscopo o un bollettino marino che un’allerta vera e propria. Eppure, da quel parlato dissonante, capisco subito che sta per succedere qualcosa di infinitamente più grave.

 

Le parole arrivano spezzate, scandite in modo impersonale, mentre sullo schermo scorrono delle coordinate che non conosco e che non saprei nemmeno come interpretare. Sembrano numeri casuali, ma la voce li snocciola con una sicurezza che lascia intendere che siano tutt’altro che casuali. Poi, senza alcuna variazione di tono, pronuncia una frase che mi gela il sangue.

“Sono previste tre detonazioni. La prima imminente. Evitate il panico. Restate all’interno se possibile.”

Non urla. Non accelera. Non lascia intendere alcuna urgenza. 

In quell’istante, senza rumore né segnale, qualcosa cambia. L’aria attorno a me diventa improvvisamente più densa. Ogni suono si attenua, anche quello dei miei pensieri, e il tempo sembra fare un piccolo salto, una contrazione impercettibile ma netta, un assestamento.

L'IMPATTO

Resto lì, fermo, con lo sguardo incollato allo schermo e la mente che cerca disperatamente un punto fermo a cui aggrapparsi, qualcosa che possa spiegare razionalmente ciò che ho appena sentito. Tre detonazioni. La prima imminente. E poi quel silenzio improvviso, come se anche la casa avesse trattenuto il fiato per un istante.

Faccio un passo avanti, incerto, quasi senza volerlo, e mi avvicino alle tre figure ancora immobili, ancora inchiodate davanti alla televisione. Le osservo da vicino, cercando di cogliere un movimento, un accenno di reazione, qualcosa che mi dica che anche loro hanno capito, che anche loro sentono il peso di quelle parole. Ma loro non si muovono.

Poi succede qualcosa, qualcosa di profondo, primordiale, che attraversa la casa come un impulso sordo, un rombo distante che non ha né origine né direzione, come se provenisse da sotto la terra. È la prima detonazione, ne sono certo, anche se nessuno ha detto che sarebbe esattamente così. E immediatamente, come attivato da un comando interiore, in fondo al mio cervello qualcosa si accende: un conto alla rovescia silenzioso, preciso, inevitabile. Cinquanta secondi. Non me lo dice nessuno, eppure lo so. Cinquanta secondi dal suono all’impatto.

Non c’è tempo per pensare, per scegliere, per domandarsi cosa fare. Il mio corpo agisce da solo, come guidato da qualcosa che sa già cosa fare. Mi butto a terra, mi stendo sul fianco, porto le braccia sopra la testa e mi chiudo su me stesso in un gesto istintivo, ripetuto chissà quante volte, anche se nella memoria non ne resta traccia. Il pavimento è freddo e duro, ma rassicurante.

Poi sento un fruscio, un lieve spostamento d’aria, un movimento preciso e misurato che si avvicina. Nel giro di pochi istanti, uno dei tre manichini si sdraia sopra di me, senza dire nulla, senza guardarmi, senza esprimere nulla. Si piega, si abbassa e mi copre con il suo corpo senza volto, come fosse programmato per farlo. Poi arriva il secondo, con lo stesso gesto silenzioso, lo stesso peso, la stessa assenza totale di emozione. Infine il terzo, che si dispone come gli altri, creando una copertura ordinata, muta, stabile, una barriera che si appoggia su di me come una seconda pelle. Nessuno mi tocca direttamente, ma sento le ginocchia, le spalle, le braccia che si incastrano attorno al corpo, come a costruire un rifugio.

Resto immobile sotto di loro, con il fiato sospeso, in uno stato di sospensione totale in cui il panico, la paura e la consapevolezza vengono momentaneamente neutralizzati dalla densità del gesto, dal peso uniforme e compatto di questi corpi senza nome che si sono disposti su di me come uno scudo. E proprio in quel silenzio denso che precede l’inevitabile, capisco che la bomba è davvero vicina, che manca poco, pochissimo, e che quando arriverà non ci sarà più nulla da capire.

Poi l’impatto. Non è un’esplosione nel senso classico: niente lampo, nessun boato definito. È un cambiamento di stato totale. Il mondo, per un istante, si riscrive. La casa vibra all’unisono, colpita in profondità da un’onda invisibile che la attraversa tutta. Ogni confine cede: muri, vetri, ossa, pensieri — tutto si sfalda, tutto si fa instabile.

I vetri esplodono in un fragore caotico, si spezzano in mille direzioni, rimbalzano contro le pareti, rotolano al suolo come pioggia densa. L’aria si contrae in un unico colpo secco, poi si espande brutalmente, risucchiata e rigettata fuori come da un respiro trattenuto troppo a lungo. Le travi scricchiolano sopra di me, si piegano e gemono. Il pavimento vibra in profondità. La scossa entra nelle ossa, risuona nel petto. Un brontolio grave risale dal sottosuolo e si allarga in ogni direzione.

 

Poi un colpo più forte degli altri, improvviso, incontrollabile. Uno dei manichini viene trascinato via. Non lo vedo, ma lo sento: sento il suo corpo che si solleva, che scivola via, che rotola e poi scompare nel silenzio. Non so quale dei tre fosse, non riesco nemmeno a pensarci, e forse non ho nemmeno il diritto di chiedermelo. Il manichino che mi copre la testa è ancora lì, saldo, rigido, come una maschera incollata al mio volto, e mi oscura completamente la vista. Non posso vedere nulla, solo ascoltare, respirare a fatica, sentire la polvere nell’aria e il calore che si addensa tra le fibre dei vestiti.

Non posso muovermi, non posso parlare, non posso fare altro che sentire.

Il pavimento sotto di me che vibra, il muro che scricchiola, le assi del soffitto che si flettono, il corpo sopra di me che resiste, che non cede, che resta fermo come se fosse l’ultima linea tra me e la fine. E mentre tutto intorno continua a esplodere, io resto lì, schiacciato da qualcosa che non comprendo fino in fondo, ma che mi ha protetto. Travolto da un’energia troppo grande per essere contenuta in parole, ma non abbastanza per distruggermi del tutto.

Almeno, non ancora.

DERIVA

E mentre tutto continua a tremare intorno a me, mentre il rumore si fa più profondo e sordo, come un battito sotterraneo che non accenna a fermarsi, mi attraversa un unico pensiero, semplice, brutale, limpido come una verità troppo tardi ricordata: al telegiornale hanno detto che saranno tre.

Questa è solo la prima. Devo andarmene.

Appena finisce tutto, appena il mondo smette di scuotersi sotto di me, devo trovare un posto più stabile, più sicuro, qualcosa che possa reggere le prossime due.

Poi, lentamente, il silenzio torna a farsi spazio. Non del tutto, non davvero, ma abbastanza da farmi capire che l’onda è passata.

Sento i due manichini sopra di me sollevarsi, prima uno, poi l’altro, con movimenti calmi, precisi, quasi rituali. Non esitano, non mostrano incertezza: si muovono con una sicurezza silenziosa, sincronizzati, esatti, come guidati da un ordine che non conosco.

 

Il terzo invece non si muove più. Non fa rumore, non si sposta, non dà alcun segno.

Resta lì, dove l’onda l’ha scaraventato. Per un attimo potrei voltarmi, potrei guardare, potrei chiedermi se è rotto, se era mai stato vivo, se ha sofferto.

Ma non lo faccio. Non per indifferenza, ma perché qualcosa dentro di me sa che ora non è il momento per farsi domande.

Mi alzo lentamente, puntando le mani sul pavimento, cercando di sollevarmi senza spezzare quell’equilibrio precario che sembra reggere ancora la stanza.

Mi muovo verso l’ingresso un passo alla volta, con gesti misurati, attento a ogni minimo suono, temendo che da un momento all’altro qualcosa, ancora instabile, possa crollarmi addosso.

Ma camminare è difficilissimo.

Ogni passo è incerto, sbilanciato; il corpo sembra non rispondere più con precisione allo spazio circostante, come se l’esplosione avesse spostato qualcosa dentro, disallineando la percezione, spezzando l’equilibrio.

 

Mi sembra di avere una labirintite improvvisa, una vertigine che non nasce dalla testa ma dalla base della colonna vertebrale. Il baricentro è cambiato, spostato di lato, e ogni movimento diventa una sfida.

 

Non barcollo in modo evidente, ma non riesco ad andare dritto. Mi trascino più che camminare, cercando un punto fermo, un riferimento qualsiasi che mi confermi che il mondo non si sta ancora muovendo sotto i piedi.

I due manichini mi seguono da vicino. Non parlano, non fanno rumore, ma percepisco la loro presenza costante e precisa, come un’ombra sdoppiata che si muove al mio stesso ritmo, appena dietro di me. Solo che adesso quel ritmo non è più perfetto come prima. Uno dei due, infatti, cammina con un’andatura leggermente sbilenca, quasi impercettibile, ma sufficiente a spezzare l’illusione di simmetria che fino a poco fa li faceva sembrare automatismi puri.

Il suo passo ha un lieve trascinamento, una cadenza fuori fase: una gamba sembra opporsi, non segue più il ritmo con la stessa precisione dell’altra. Dopo qualche metro, senza che io mi volti, sento un tremito breve e nervoso sfiorarmi la schiena. È un movimento involontario della sua mano, rapido, immediatamente represso, come un riflesso incontrollato, qualcosa che ha ceduto improvvisamente il controllo, per un solo istante.

 

Non è un tocco, né un gesto diretto, ma una vibrazione trattenuta, appena avvertibile, abbastanza da farmi capire che qualcosa è cambiato. Non so se è un danno, un riflesso, un guasto, o se c’è, sotto quella superficie liscia e muta, qualcosa che comincia a reagire.

Non mi fermo, continuo a camminare con passo incerto, facendo finta di non aver sentito nulla, ignorando quel tremore, quella leggera deviazione che ora mi accompagna da dietro, perché non so dove sto andando, né cosa troverò fuori, ma so con assoluta certezza che non posso restare lì ad aspettare la seconda esplosione.

Sono troppo lento, e lo so, lo sento in ogni passo che faccio, perché ogni movimento mi sembra un’impresa, ogni metro guadagnato ha il sapore di un miracolo, e mentre cerco disperatamente di orientarmi tra i mobili mezzi crollati e l’oscurità che rende tutto più irreale, ho la netta sensazione che il tempo mi stia scivolando via dalle mani. E poi lo sento: un altro suono, profondo, pieno, qualcosa che non è solo un rumore ma un evento che grava su tutto, come se il mondo stesso avesse smesso di reggere il proprio peso e stesse ora cedendo sotto una pressione troppo grande da sopportare. 

È la seconda esplosione, e anche se non l’ho ancora vista, so esattamente cosa significa: ho meno di un minuto per decidere dove andare, dove nascondermi, dove rifugiarmi in questa casa che in parte conosco e in parte mi è ancora estranea, ma la verità è che non andrò lontano, lo capisco all’istante, prima ancora che il pensiero riesca a formulare parole.

ASIMMETRIA

Sono troppo lento, troppo stanco, e quando finalmente realizzo cosa sta per succedere, è già tardi. Non faccio nemmeno in tempo a reagire: i due manichini, quelli che mi seguivano in silenzio da quando avevo lasciato il salone, si muovono all’unisono con una rapidità che non mi aspettavo, quasi violenta, esatta, chirurgica. Sembra che conoscano già ogni dettaglio di ciò che sta per accadere — i tempi, le conseguenze, le traiettorie — e che abbiano calcolato al millimetro quanto poco margine mi resta per salvarmi. Non esitano, non chiedono nulla. Mi spingono a terra con decisione, mi bloccano al suolo, e si dispongono nuovamente sopra di me, non più con l’ordine quasi cerimoniale della prima volta, ma in modo più disordinato, come se ora contasse solo essere barriera, non importa come.

Poi cala il buio. Non il semplice spegnersi della luce, ma una densità che si materializza intorno, fatta di fumo, di polvere, di tempo collassato in un solo punto, trattenuto a forza. Chiudo gli occhi con tutta l’energia che ho, stringo le palpebre fino a sentire la tensione nei muscoli del viso, nella speranza che basti a non farmi cedere. Sopra di me, i manichini tremano, scricchiolano, si flettono a tratti, attraversati da qualcosa che li piega dall’interno, una forza troppo grande da contenere.

E poi arriva l’onda.

È diversa dalla prima, più brutale, più instabile, più viscerale. Non ha bisogno di essere vista per imporsi, perché si manifesta ovunque: nella pelle che vibra, nelle ossa che rimbombano, nell’aria che cambia peso e direzione, nei suoni che si deformano come voci annegate in una stanza d’acqua. È un delirio distruttivo che non si può descrivere, ma solo sopportare, qualcosa che riscrive per un attimo le leggi stesse della materia, piegando tutto ciò che esiste, anche il tempo, anche me.

Non so se la casa resisterà a questo secondo impatto, e nemmeno se io lo farò.

Ma lo so con assoluta certezza: per ora, sono ancora qui.

RESIDUO

Poi arriva un silenzio definitivo. Il mondo si chiude in se stesso e trattiene il respiro, come nell’attimo esatto prima di un crollo.

Non so per quanto tempo resto lì, disteso a terra, immobile sotto il peso di quei due corpi rigidi e muti che ancora vibrano lievemente, con addosso l’eco dell’onda appena passata, un’energia che sembra non volerli lasciare andare.

Nel sogno il tempo non ha regole. Potrei essere ancora lì sotto, oppure già altrove.

E senza alcun passaggio chiaro, senza transizione, senza alcuna cesura netta tra prima e dopo, apro gli occhi e sono nel mio letto. La stanza è immobile, quieta, immersa in una penombra che sembra voler ancora trattenere un frammento di sogno. L’unico suono che sento è quello costante e secco della sveglia che vibra accanto a me, annunciando che sono le 17:00 passate. Sento la gola secca, come se avessi davvero respirato fumo e polvere, e per un istante resto lì, immobile, incerto, incapace di dire con certezza se quello che ho vissuto fosse soltanto un sogno o qualcosa di più profondo, più reale della realtà stessa.

Non so che fine abbiano fatto i due manichini che mi hanno protetto, né se il terzo, quello che era stato trascinato via durante la prima esplosione, sia sopravvissuto o no. E soprattutto, non so cosa sia successo con la terza detonazione, quella che nel sogno non è mai arrivata ma che continua a esistere da qualche parte, sospesa, in attesa, come una possibilità non ancora consumata.

Ma forse, come accade sempre nei sogni, sapere non è davvero importante.

Ciò che resta, ciò che continua a pulsare sottopelle anche adesso che sono sveglio, è quella sensazione inspiegabile, immobile e profonda: che qualcosa, là dentro, sia davvero cambiato.

E che, nel profondo, qualcuno stia ancora aspettando.

GLOSSARIUM:

mio sample

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