Durata: 13m
Apro gli occhi, ma per qualche secondo non so se li ho davvero aperti, perché la sensazione che ho non è quella del risveglio, né quella di uno stato di coscienza preciso, ma più quella di essere finito dentro qualcosa che mi avvolge la testa e mi impedisce di distinguere con chiarezza dove cominciano le immagini e dove finiscono le percezioni. Non vedo niente di preciso, solo una massa grigia, densa, che mi avvolge la testa come una garza troppo stretta, una nuvola che non sta nel cielo ma si infila direttamente sulla faccia, insinuandosi tra le tempie, nelle narici, dietro gli occhi, intorno alle orecchie, e mi filtra tutto, anche l’aria, anche i suoni, come se il mondo intero fosse stato ricoperto da uno strato spesso di lana bagnata, uniforme, che attutisce ogni cosa e mi isola dentro una bolla opaca e silenziosa.
Non riesco a capire dove mi trovo, non so se sono in piedi, seduto o disteso, ma sento il corpo, sento i piedi, il battito leggero sotto la pelle, il respiro che passa appena, come se fossi sveglio da un po’, ma solo adesso mi rendessi conto di esserlo, e solo adesso mi stesse arrivando la consapevolezza della mia posizione nello spazio, come se fino a un attimo prima fossi rimasto sospeso tra due stati senza poterne distinguere i confini. Provo a muovere le braccia, all’inizio con cautela, quasi a tentoni, cercando di capire se intorno a me ci siano pareti, forme, presenze, ma non sento nulla, non vedo nulla, non capisco nulla, le mani si alzano davanti al viso, poi si allungano verso i lati, verso il basso, verso l’alto, ma tutto quello che raccolgo è una sensazione di vuoto che resiste, che non restituisce niente, un’assenza di risposta che non è silenzio ma materia.
Nessuna parete, nessun oggetto, nessun ostacolo, solo vuoto. Faccio un passo. Poi un altro. I piedi poggiano su qualcosa di solido, ma liscio, privo di caratteristiche identificabili, una superficie che non dà indicazioni né direzione, ma almeno mi conferma che sono in piedi, in uno spazio, e che il mio corpo può muoversi, anche se non so verso cosa, né se esista davvero un luogo verso cui andare. Solo allora, con un movimento più deciso, porto le mani al volto, prima con lentezza, poi sempre più in fretta, quasi per istinto, come se potessero finalmente afferrare la causa di quella densità che mi avvolge, e solo in quel momento sento che qualcosa si muove, che una consistenza leggera ma concreta si sposta sotto le dita, simile a fumo denso, a ovatta umida, qualcosa che non oppone resistenza ma nemmeno si lascia attraversare completamente, una massa che sta lì, che si fa sentire, che esiste.
Le mani la sfiorano, la spingono, e per un attimo, con un gesto abbastanza rapido, riesco perfino a scostarla un po’, a farle cambiare posizione, ed è solo a quel punto che capisco: questa cosa non è ovunque, non mi circonda interamente, non riempie lo spazio, ma è tutta qui, concentrata sul mio viso, racchiusa intorno alla testa, come un involucro che non lascia passare né entrare nulla. Mi avvolge solo la testa, fronte, occhi, naso, bocca, come una maschera viva, come una seconda pelle spessa che non si vede ma si sente, come una nuvola che non cade dall’alto, ma nasce dentro, e adesso mi sta addosso.
Non si stacca, non si dissolve, è incollata al viso come pelle aggiunta, cucita in silenzio, ed è proprio questa sua insistenza che mi spinge a reagire ancora, a scuotere la testa, a correre, ad agitare le braccia con più forza, come se il movimento potesse spezzarla, dissolverla, strapparla via dal mio campo visivo e restituirmi il mondo, ma niente cambia. Il paesaggio non si rivela, non appare, non si lascia nemmeno intuire, solo questa cosa che continua a stringermi la fronte, a separarmi da tutto, e che trasforma ogni gesto in fatica inutile, come se anche lo sforzo fosse destinato a essere assorbito, attenuato, smorzato.
Mi fermo, senza nemmeno accorgermene, e le mani restano sollevate davanti a me, incerte, sospese, come se stessero ancora cercando qualcosa da toccare, qualcosa da afferrare, ma non ci fosse più nulla da afferrare. Resto lì, sospeso in un luogo che non riesco a descrivere, perché non lo vedo, non lo sento, ma so di esserci dentro, so che esiste, e so che io ci sono, in mezzo a tutto questo, anche se tutto il resto mi sfugge. Non provo paura, non ancora, solo un senso di attesa, come se da un momento all’altro qualcuno potesse parlarmi, dirmi qualcosa, spiegarmi cosa succede, cosa devo fare, ma non arriva nessuno, non succede niente, non c’è alcuna indicazione.
C’è solo questa nuvola, e ci sono io. E comincio a sospettare che non sia qualcosa da cui posso fuggire, né qualcosa che posso combattere. È lì per restare. Almeno per ora.
LA CARPA
Continuo a muovere le mani davanti al viso, ormai con un misto di ostinazione e frustrazione, e non cerco più davvero qualcosa, ma non riesco a fermarmi, come se ripetere quel gesto fosse l’unico modo per restare sveglio, presente, vigile. Ogni tanto accelero i movimenti, nella speranza che la velocità possa aiutarmi a strappare la nebbia di dosso, oppure rallento, come se da qualche parte, dentro tutto questo, potesse esserci qualcosa da scoprire, anche solo per caso, qualcosa che non si mostra ma che può rivelarsi appena se cambi ritmo.
Ma mi accorgo che non posso esagerare, perché se mi muovo troppo in fretta, se agito le braccia con troppa forza o cerco di forzare il corpo fuori da questo impasto d’aria, arriva subito il fiatone, e respirare dentro questa nuvola è difficile, l’aria è poca, compressa, impura, ogni sforzo mi chiude ancora di più il petto, come se la nuvola si ispessisse proprio quando provo a reagire. Devo stare calmo, devo rallentare, anche solo per riuscire a respirare, anche solo per restare in piedi.
Così continuo, ma in modo più cauto, con gesti misurati e lenti, allungo le braccia, le passo lentamente da una parte all’altra, non so cosa sto cercando, ma sento che è meglio non forzare più nulla, che è meglio lasciar fare alle mani, lasciare che esplorino senza aspettative, solo per il bisogno di muoversi. Ed è proprio mentre sto facendo uno di quei movimenti ampi, da sinistra verso destra, che la vedo: una cosa che non c’era prima, una sagoma, una presenza.
Mi blocco di colpo, la mano resta sospesa a mezz’aria, e per un attimo non so se ho davvero visto qualcosa o se me lo sono immaginato, poi la forma si muove, lentamente, con continuità, e capisco che non è uno scherzo della luce, né un riflesso, è qualcosa di reale, concreto, presente.
Faccio un mezzo passo indietro, solo per avere un po’ più di prospettiva, anche se non serve a molto, perché la nuvola continua a limitarmi la vista, ma quel poco che riesco a distinguere è sufficiente: una figura allungata che scivola nell’aria con una naturalezza che non ha senso, ma che in quel momento non mi sorprende. È un pesce, un pesce vero, con pinne traslucide, con il corpo che curva ad ogni piccolo impulso, come se fosse immerso in acqua. Solo che non c’è acqua. C’è aria. E lui ci nuota dentro come se fosse la cosa più normale del mondo, con quella naturalezza assoluta che hanno solo le creature perfettamente adattate al loro elemento. È uno di quei pesci rossi grandi, da illustrazione giapponese, di quelli che si vedono nelle stampe antiche o nei disegni d’inchiostro, con le pinne lunghe e leggere come seta e il corpo largo, quasi teatrale, un animale che sembra fatto più per essere guardato che per sopravvivere. Forse è una carpa giapponese, non lo so, non ne conosco il nome, ma il colore è inconfondibile: un rosso vivo, saturo, da iconografia tradizionale, che sembra brillare anche dentro questa foschia.
Le sue pinne si muovono appena, ogni tanto scatta un piccolo movimento della coda, ma non c’è fretta, non c’è scopo evidente, si muove per il gusto di farlo, o forse semplicemente perché è fatto per questo. Io resto fermo e lo seguo con gli occhi, o con quello che riesco a vedere, e il pesce non mi guarda, non cambia traiettoria, non accelera, semplicemente avanza, con quella calma che hanno solo le cose che non si sentono osservate.
Per qualche secondo penso che potrebbe dissolversi da un momento all’altro, svanire come è apparso, ma rimane lì, continua a muoversi nello stesso modo, nella stessa direzione, e qualcosa dentro di me comincia a cambiare, non in modo improvviso, non come una rivelazione, ma più come una pressione che si allenta, un nodo che si scioglie appena, una tensione che si ritira senza far rumore. Per la prima volta da quando sono qui, da quando questa nuvola mi ha coperto la testa, c’è qualcosa che non devo forzare, qualcosa che non richiede sforzo né lotta, solo presenza. Non capisco ancora cosa voglia dire, ma comincio a sentire che il pesce non è solo un’apparizione casuale, è come se il suo modo di muoversi fosse già una risposta, una risposta semplice, muta, ma evidente: si può stare anche qui dentro, non bisogna per forza spingere, combattere, cercare un’uscita, forse c’è un altro modo. Lo guardo ancora qualche secondo.
CEDIMENTO
Il pesce continua a nuotare nell’aria, sempre con la stessa calma, con lo stesso ritmo lento e regolare, e io resto a guardarlo, per qualche secondo ancora, cercando di capire se sta tracciando una traiettoria precisa o se semplicemente si muove per esistere. Poi, senza davvero deciderlo, faccio un passo. Poi un altro. Allungo le mani per aprirmi il passaggio nella nuvola, che non oppone resistenza ma nemmeno si lascia attraversare con facilità, e ogni gesto richiede attenzione, precisione, fatica.
Il pesce non mi aspetta, ma non si allontana nemmeno troppo, resta a distanza costante, come se sapesse che sto cercando di seguirlo. Non accelera, non si gira, non mi conduce da nessuna parte, ma io continuo a muovermi nella sua direzione, più per curiosità che per necessità, come se bastasse restargli vicino per capire qualcosa in più. La nuvola non si dissolve, resta attorno al mio volto, spessa, umida, e ogni respiro è faticoso, ogni movimento richiede uno sforzo lento e continuo, come se l’aria fosse fatta di sabbia fine, sospesa.
Provo a non agitarmi, provo a restare calmo, perché ogni volta che aumento il ritmo, anche solo un po’, il petto si stringe e l’aria si accorcia, come se il sogno stesso volesse impormi di rallentare. Cammino a piccoli passi, mani sempre davanti a me, a volte per cercare equilibrio, a volte per sentire il peso della nuvola, a volte solo per abitudine, come se le braccia potessero anticipare il pericolo o indicarmi la strada. Non vedo altro che il pesce, che continua a muoversi nell’aria con la stessa leggerezza indifferente, senza guardarmi, senza cambiare ritmo, come se tutto intorno non esistesse o non fosse degno della sua attenzione.
Mi sembra che il tempo stia passando, anche se non ho alcun riferimento, ma lo capisco dal corpo, che comincia lentamente a cedere: prima un formicolio alle gambe, poi una stanchezza diffusa che si allarga dalle braccia al torace, rendendo ogni gesto più pesante, più incerto. Provo a respirare più profondamente, ma l’aria resta densa, opaca, distante, come se ci fosse ancora qualcosa che la separa da me, e intanto la testa pulsa piano dietro le tempie, in un punto preciso che si fa sempre più teso, più caldo, finché non faccio un passo che non si completa, un movimento sbilanciato che non arriva a essere una caduta ma mi toglie equilibrio e mi costringe a fermarmi.
O forse è il corpo stesso che decide di fermarsi, senza chiedermi niente, lasciando scendere le mani, abbassare il petto, cedere la schiena in un modo lento e irreversibile, mentre il pesce, davanti a me, continua ad allontanarsi con la stessa calma, come se non avesse mai avuto bisogno che io lo seguissi davvero. Non provo paura, non provo panico, solo una stanchezza improvvisa, totale, un bisogno fisico di chiudere gli occhi e lasciar andare tutto, le braccia, il respiro, l’equilibrio, come se reggere ancora quel peso invisibile fosse semplicemente impossibile. E li chiudo. Li chiudo solo per un attimo.
Ma quando li riapro, la nuvola non c’è più, e davanti a me, sul comodino, la sveglia segna le 7:00. Non so quanto tempo sia passato, né quanto di quello che ho visto fosse reale, ma so che respiro, e che l’aria, ora, è pulita.
