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Durata: 11m

Mi vedo cadere, ma non c’è gravità, solo un’inerzia silenziosa che mi trascina. Il buio mi circonda da ogni lato: uniforme, privo di profondità, senza una direzione. Non una linea, non un bordo, non un orizzonte.

Non ci sono pareti, né terra, né cielo. Solo vuoto. Eppure sento il movimento. Non posso misurarlo, non posso provarlo, ma lo sento: una pressione diffusa, una tensione senza verso. Come se fossi immerso in una corrente invisibile, che non so da dove venga né dove porti.

Nonostante veda solo nero in ogni direzione, il mio corpo è perfettamente visibile — avvolto da una luce senza provenienza, senza ombra che, anche se ci fosse, non saprebbe dove posarsi. Lo vedo di spalle, come un corpo estraneo. Non vedo il viso, ma so che sono io. Fluttuo a circa tre metri di distanza, il tanto che basta per osservarmi intero, come se la prospettiva fosse l’unica cosa reale in questo spazio vuoto.

Cosa sono io? Credo solo coscienza: un punto di osservazione puro, senza forma, senza peso. Percepisco tutto, ma non so cosa provi il corpo laggiù. È come se la sensazione fosse separata: io vedo il corpo scivolare, eppure resto sospeso a guardarlo.

Il sentimento è chiaro: qualcosa si muove. Ma cosa? Il mio corpo? Il vuoto? O forse è solo la percezione a scivolare, una coscienza che vaga in uno spazio senza regole né confini.

Cerco un appiglio: un’ombra, una linea, un colore. Qualcosa che spezzi questa uniformità.

Non c’è nulla.

​​

SOSPENSIONE

Non so se sto cadendo o se il vuoto mi trattiene. Ogni fluttuazione sembra una spinta, e non so più distinguere se sia il mio corpo a muoversi o la coscienza a sbandare.

Cerco di affinare lo sguardo, di capire se sono io a scivolare o se è il mondo attorno a muoversi. Ma non c’è appiglio, non c’è un punto fermo. È come trovarsi in un luogo dove la gravità cambia direzione, e i sensi non bastano a dare consistenza a ciò che esiste.

La consapevolezza è tutto ciò che mi resta, ma anche quella comincia a mentire. Ogni sensazione si sfuma, si dissolve. La realtà — se c’è — non si lascia toccare. È un’illusione che svanisce appena provo ad afferrarla, un’ombra che arretra. Un luogo senza regole, un abisso dove l’inconscio collettivo si riversa come un fiume oscuro.

Provo a muovere le mani, a tendere i piedi, ma non arrivo a nulla. Non c’è attrito, non c’è peso, non c’è spazio. Ogni gesto svanisce senza lasciare traccia, come un pensiero non detto.

È un terrore silenzioso: non poter afferrare nulla, non sapere se sto precipitando o galleggiando in uno spazio senza tempo. So solo che guardo il mio corpo laggiù.

GLI OGGETTI

Improvvisamente, vedo arrivare degli oggetti. Galleggiano nel vuoto, lenti, come trascinati da una corrente invisibile. All’inizio penso che possano aiutarmi: potrebbero dare un senso allo spazio, un appiglio, una direzione.

Non ho paura di loro. Non penso che possano ferirmi, né che io possa caderci sopra. Sono lì, distanti ma abbastanza vicini perché io li percepisca, come se potessi sfiorarli allungando una mano.

Anche loro, come me, sono perfettamente illuminati: una luce senza fonte li avvolge, netta, uniforme, senza ombre.

È una luce che mostra, ma non chiarisce. È come se mi mancassero gli occhiali, come se il mio astigmatismo fosse diventato un buco nero e l’atropina avesse cancellato ogni contorno. Vedo le forme, ma non i dettagli.

Un oggetto, ad esempio: potrebbe essere una chiave, o una lama, o un bastone. O forse un pezzo di legno, o una mano piegata su se stessa. Non posso dirlo. Più cerco di mettere a fuoco, più tutto si sfalda. Nessuna linea è netta, nessuna immagine resta.

Tutto sembra concreto e, allo stesso tempo, impalpabile.

Sono lì, galleggianti in questa massa nera. E io resto qui, a osservarli, senza paura, ma con una confusione che cresce e si attorciglia, come se la realtà stesse giocando con me, senza darmi risposte.

Cerco di fissare lo sguardo su uno di questi oggetti, ma anche quello si perde. Non c’è un punto dove fermarsi: l’occhio scivola, si piega, viene trascinato in spirali morbide, come se la vista stessa fosse un’illusione che si dissolve appena provo a concentrarmi.

Il sollievo iniziale svanisce. Lo spazio si confonde con il movimento, gli oggetti si confondono tra loro, e io non so più se sto scivolando verso qualcosa o se tutto sta scivolando via da me.

Resta solo questa sensazione: una corrente che non ha direzione, una danza silenziosa di forme che non si lasciano afferrare.

Non so cosa sto guardando.

​​

LA SVEGLIA

Poi, tra quelle forme indistinte, ne arriva una. Più chiara. Più dritta. Una sveglia.

La riconosco subito, nitida come un disegno inciso su uno sfondo bianco.

La sveglia galleggia, e il suo ticchettio è reale.

Reale.

È l’unico suono che rompe il silenzio, che taglia questo vuoto come una lama sottile.

Il suono si allarga, si ripete, si incunea nel sogno: tic-tac, tic-tac, tic-tac.

Si fa sempre più forte, più presente, più impossibile da ignorare.

Il ticchettio pulsa. Si trasforma. Diventa uno squillo.

Un suono troppo acuto, troppo insistente, troppo fuori luogo per appartenere a questo spazio.

Ed è lì che capisco: la sveglia è vera.

Il sogno si sfalda.

Il vuoto evapora.

Le forme si dissolvono come nebbia scossa dal vento.

E io mi sveglio.

Il corpo torna pesante.

Le lenzuola mi premono addosso come sabbia bagnata.

La stanza è immobile.

La sveglia batte ancora, insistente, come un martello sul ferro caldo.

Guardo l’ora: le 7:30.

GLOSSARIUM:

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