PREMESSA: nomi e generi delle persone in questo testo sono fittizi e arbitrari. Non hanno alcuna corrispondenza con persone reali e servono solo a rendere più chiaro il flusso del racconto.
Sono seduto sulla sabbia, con le gambe distese davanti. La mano sinistra è piantata dietro a reggere il peso, mentre la destra stringe un generoso cono al limone che si scioglie troppo in fretta. Il corpo affonda piano, la sabbia tenta di trattenermi. Il calore filtra attraverso i pantaloni e mi cuoce a zone: le cosce, la schiena alta, la nuca. Il sole è a picco, la sua luce incide la pelle con insistenza. Davanti, le onde arrivano stanche, senza creste, si allungano in scie basse e lente, più sbadigli che respiri.
Il mare è opaco, quasi grigio, sfinito. La brezza, salata e rarefatta, non rinfresca: si limita a spostare l’afa da un punto all’altro, un ventilatore rotto. Respiro a fatica. Ogni respiro è corto, secco. Il petto si solleva appena, poi ricade, svogliato. Anche il cuore rallenta, deciso a consumare il minimo indispensabile.
La spiaggia è quasi deserta, un angolo di solitudine incastrato tra capannoni estivi e giochi abbandonati. L’unico movimento è la mia mano che porta il gelato alla bocca.
Accanto a me c’è qualcuno. Lo guardo e riconosco Andrea: le spalle, la postura rilassata, il modo in cui respira. Ma qualcosa non torna. I lineamenti sfuggono, le proporzioni non convincono. C’è un’inquietudine sottile, difficile da spiegare. Quel corpo non gli appartiene del tutto.
Poi penso a Roberto. Non è un pensiero preciso, ma una sensazione che affiora lentamente: Andrea, sì, ma dentro il corpo di Roberto. Solo che nemmeno quel corpo è davvero lì. Presente, certo, ma filtrato. Braccia, gambe, la sagoma generale ci sono, ma i bordi sono sfocati, colati via dal caldo. Ogni arto sembra evocato più che disegnato.
E non è neppure il dettaglio peggiore.
Il corpo — qualunque corpo sia — è umanoide, ma la testa è quella di una giraffa. Non una maschera. Una testa viva, con narici che fremono e occhi neri che mi osservano in silenzio. Si erge sopra il mio campo visivo. Il collo si tende con un gesto continuo, naturale, come se nulla fosse.
Il mio gelato è un’illusione di normalità. Un gesto ripetuto con ostinazione, dentro una scena che scivola tra l’abituale e l’assurdo.
La giraffa — o Andrea, o Roberto, o ciò che resta di entrambi — si china verso il suo cono. Il lungo collo oscilla con una grazia lenta, flessibile, quasi liquida. Resto immobile, incantato. Ogni movimento ha una precisione ipnotica, una lentezza rituale che annulla il tempo.
La lingua, lunga e umida, si protende verso il suo gelato rosso — fragola, il preferito di Andrea, che ho sempre criticato perché, per me, insapore. Lo sfiora con precisione, ne preleva frammenti minuscoli, regolari, come in una cerimonia.
Il sudore mi cola lungo la schiena, mi incolla i vestiti. Eppure non riesco a smettere di guardare. Ogni gesto è perfetto. L’assurdo ha assunto una logica, un senso che non so spiegare. Il mondo sembra ordinarsi in silenzio, ed io ne faccio parte, anche se non ne comprendo il disegno.
Sento la pelle sfrigolare, ma non importa. La scena è netta, affilata. La giraffa danza. Non so perché mi trattenga così tanto, ma nulla riesce a staccarmi da quella figura.
Andrea — o ciò che resta — sorride. La testa di giraffa si piega. Gli occhi mi fissano con una calma che non ha niente a che vedere con la realtà. Dentro quel corpo impossibile, sotto il sole rovente, c’è pace.
Rimango lì a guardare, senza pensare. Il desiderio è solo vedere, vedere tutto. Fino all’ultima goccia che cola.
Il gelato si scioglie. Il caldo non cede. Io resto fermo. Catturato.
E forse, in fondo, voglio restare.
Calore, assurdità, immobilità: le coordinate di un sogno in cui tutto, per una volta, coincide. Un sogno che non va interrotto.
Trill.
Un suono stridulo, sgraziato, taglia l’aria come un colpo secco. Il gelato scompare. La sabbia sotto di me si dissolve.
Trill.
Apro gli occhi. Il soffitto è bianco. Il lenzuolo è arrotolato attorno a una gamba. Il telefono vibra sul comodino.
Sono sudato, ma l’aria è fredda. Fuori è nuvolo.
Guardo lo schermo ancora acceso, il nome dell’app che lampeggia, il tempo che ricomincia a contare.
Non c’è più nessuna giraffa. Nessun cono. Solo la mia stanza, il mio corpo, e il giorno che ricomincia da dove l’avevo lasciato.
