FORZA
RESIDUA
Durata: 18m
Apro gli occhi. Sono in fila. Ordinata, silenziosa, già in movimento prima ancora che ne prendessi coscienza. Intorno a me ci sono altre persone: immobili, rivolte nella stessa direzione. Nessuno parla, ma tutti sembrano sapere cosa ci aspetta.
Davanti a noi c’è qualcuno — una figura, una voce, forse entrambe — che ci spiega cosa fare. Parla di un percorso, di una foresta da attraversare, di rapide, fiumi da guadare, ostacoli da evitare. Lo fa con tono neutro, senza enfasi, come se stesse elencando le fasi di qualcosa già noto. A un certo punto dice anche “scimmie”, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E nessuno ride, nessuno si guarda intorno, nessuno sembra stupito. Tutti ascoltano in silenzio, come se avessimo già accettato ogni assurdità che ci verrà proposta. Anche io. Anche se non ho idea di come sia arrivato qui, né di cosa stia per succedere.
Mi guardo attorno. I volti delle persone accanto a me sono vaghi, sfocati, come se fossero a fuoco solo nella memoria, non negli occhi. Sembrano manichini. Eppure, li percepisco familiari. Non sono amici, ma nemmeno sconosciuti. Somigliano a colleghi, o a quella categoria intermedia di persone con cui si è condiviso abbastanza da riconoscerne il modo di muoversi, ma non abbastanza da ricordarne il nome.
I dettagli minimi parlano: un modo di stare in equilibrio, un gesto abituale, un impercettibile scatto nel girare la testa. Non so chi siano, ma so che non è la prima volta che ci troviamo insieme.
Scanso tutti. Non voglio aspettare, non cerco sguardi. Mi muovo lungo la fila, deciso, facendo slittare le persone di lato una alla volta, senza dire nulla. Nessuno si oppone. Nessuno mi ferma. Continuano a guardare avanti, come se nulla stesse accadendo.
Avanzando, noto qualcosa che prima non c’era — o che forse semplicemente non avevo visto. Ai margini del sentiero, appena oltre le ultime persone in fila, ci sono delle biciclette. Mountain bike robuste, sporche di fango secco, con telai spessi e gomme larghe. Stanno in piedi da sole, in equilibrio perfetto, come animali addestrati in attesa di un segnale. Nessuna targa, nessun nome. Ma ognuna sembra già assegnata. Nessuno le guarda. Eppure, tutti sembrano sapere che ci aspettano.
Ne supero una. Poi un’altra. Le conto senza volerlo. E mentre cammino, qualcosa cambia.
Il terreno finisce.
O meglio, si apre. Improvvisamente. Come se tutto quello che c’era stato prima fosse solo un corridoio verso questo punto. Non siamo all’ingresso di una foresta, né all’inizio di un sentiero. Siamo sul bordo di un dirupo. E il percorso comincia qui.
Davanti a me si stende una rampa inclinata, fatta di grossi tasselli di legno incastrati tra loro. Un invito chiaro e muto: lanciati. Il primo tratto è dritto, secco. Poi scompare nel vuoto. Ai lati non ci sono protezioni. Solo roccia nuda, che cade a picco per decine di metri. Attorno, alberi ovunque, contorti, aggrappati al pendio come mani che cercano di trattenere la discesa.
Non c’è gradualità. Nessuna curva morbida per prendere confidenza. La rampa scivola subito giù, in verticale. Come se fosse stata costruita per non dare scampo: chi parte, parte. Chi si ferma, cade.
Mi fermo anche io. Davanti a me c’è una bici. La prendo per il manubrio. È fredda, pesante, ma mi sembra viva. Come se stesse trattenendo il fiato insieme a me.
Nessuno mi parla. Nessuno mi incoraggia. Nessuno mi vieta nulla.
Regolo i piedi sui pedali. Stringo il manubrio. Sento il corpo che si dispone, automaticamente. Non controllo più ogni gesto — li lascio accadere. Per una volta, non faccio domande. Non cerco conferme. Non osservo, non studio. Mi lascio andare.
Chiudo gli occhi solo per un istante, e quando li riapro il vuoto è lì — non più come una minaccia, ma come un inizio, e allora spingo sul pedale.
DISINVOLTURA
La discesa mi spinge il cuore in gola con una forza netta, tagliente, che conosco bene. È una sensazione che risale da dentro, che torna alla memoria con chiarezza assoluta: è la stessa identica morsa che provavo quando, da ragazzo, riemergevo dopo una lunga apnea. Quel primo respiro che entra a scatti, che sfonda ogni equilibrio interno, mentre il corpo resta sospeso tra lo sfinimento e il sollievo. Non è paura, non è eccitazione. È un silenzio pieno che arriva da dentro e si allarga.
La discesa dura un attimo. Un battito di ciglia. Non riesco nemmeno a pensare di chiudere gli occhi. Li tengo spalancati, attaccati al tracciato, inchiodati al ritmo. Li chiudo solo all’arrivo, per un istante, quasi per sigillare il gesto.
La bicicletta sotto di me è solida, sincera. Non si agita, non scivola, non si oppone. Sento le vibrazioni attraverso il manubrio, ma sono rassicuranti, come un dialogo continuo tra me e lei. Mi fido. È una fiducia strana, non razionale. La bicicletta sa cosa sta facendo, e questo mi basta. Mi lascio portare, senza pensare troppo.
Quando arrivo in fondo mi sorprendo. Mi aspettavo una discesa più lunga, più tecnica, più pericolosa, ma è già finita. O almeno sembra. Perché subito dopo, senza un vero stacco, iniziano i tornanti: una sequenza precisa e ravvicinata, prima verso destra, poi subito a sinistra, poi ancora destra, sotto una pianta enorme che si piega sul sentiero come un portale. La prendo con scioltezza, fluido nei movimenti, rapido ma tranquillo. Il corpo si adatta senza sforzo, non devo correggermi.
Una famiglia di scimmie si agita sopra di me, tra i rami, disturbata dal mio passaggio. Urlano, si muovono a scatti. Non mi fermo. Abbasso appena la testa per evitare un ramo basso, e vado avanti.
Mi muovo con naturalezza. Ogni curva è una decisione che arriva prima ancora che la coscienza se ne accorga. Sono dentro al ritmo del percorso, dentro al respiro del sentiero. La foresta attorno a me è fitta, rigogliosa, ma non oppressiva. È una presenza viva, ricca, generosa. Non devo combatterla, non devo aprirmi un varco. Mi accompagna. Non ci sono più tasselli di legno come nella rampa iniziale. Ora il tracciato segue la terra, la sua inclinazione naturale. È un sentiero vero, scavato nel verde, con la pendenza giusta per non dover frenare né spingere.
All’ultima curva sento la velocità calare. Il terreno si apre. Sento le ruote che smettono di ronzare. Il corpo si prepara a pedalare, ma non faccio nemmeno in tempo. Davanti a me, oltre un piccolo rilievo, l’arrivo comincia a comparire.
Non so ancora cosa troverò lì, ma so che ci sto arrivando.
FUGA
Appena arrivo all’apertura finale del sentiero, li vedo. Sono già lì. Ancora prima che io tocchi terra, cominciano a sbracciarsi, agitati, urlando qualcosa che all’inizio non distinguo, ma che capisco benissimo nel tono: mi stanno chiamando, mi stanno avvisando, mi stanno dicendo che devo muovermi subito. Fanno segni chiari, diretti, come se non ci fosse tempo per spiegare nulla. E appena le loro voci riescono a bucare la distanza, le parole mi raggiungono con la forza dell’urgenza:
— Muoviti! Coraggio! È pericoloso! Dobbiamo partire! Molla la bici!
Non aspetto che ripetano. Lascio cadere la bicicletta sul fianco e comincio a correre verso di loro. Mi vengono incontro. Due persone, un uomo e una donna, mi afferrano per le braccia senza esitazione e mi tirano verso la jeep scura parcheggiata poco più in là, tra gli ultimi alberi. Aprono la portiera posteriore e mi spingono dentro con un gesto preciso, senza bisogno di parole.
Non capisco chi siano, non so da dove siano arrivati, né da quanto mi stessero aspettando, ma non è importante. Il pericolo, a detta loro, è evidente. Ed è già qui.
Alle nostre spalle, nella fessura di terra che si apre tra la foresta e l’inizio del dirupo, qualcosa si muove. Rumore di passi, pesanti, troppo pesanti per essere umani. Fruscii violenti tra i rami, urla spezzate di animali nascosti. Poi, lo vedo. Un elefante, enorme, furioso, emerge dalla vegetazione con le zampe anteriori alzate, la proboscide che si agita come un artiglio in cerca di appiglio. Ma non è solo. È avvinghiato, stretto da qualcosa che lo sovrasta: un serpente gigantesco, lucido, stretto attorno al corpo dell’elefante come una gabbia vivente. I due si dibattono. Uno cerca di muoversi, l’altro lo trattiene. Non so chi stia vincendo, ma la furia di entrambi è palpabile.
Noi corriamo. La macchina sobbalza su una strada sterrata, immersa ancora nella giungla, dove ogni curva sembra troppo stretta e ogni ramo troppo basso. Nessuno parla. La donna alla guida ha lo sguardo inchiodato alla strada, stringe il volante con decisione, guida con rabbia silenziosa, il corpo proteso in avanti come se volesse spingere anche con le spalle.
Accanto a lei c’è l’uomo, lo stesso che mi ha tirato dentro poco fa. Tiene in mano un monocolo da teatro — minuscolo, elegante, con una cornice dorata e lucida che riflette la luce filtrata tra le fronde e la rilancia dentro l’abitacolo in lampi improvvisi, come un pendolo di sole che oscilla tra i sedili. Quel riflesso mi colpisce dritto negli occhi per un istante, come un segnale, un richiamo che costringe a guardare. Lui lo solleva con naturalezza, come se fosse il gesto più normale del mondo, lo punta fuori dal finestrino e, dopo un secondo di osservazione immobile, urla una sola parola:
— Dietro!
Io mi giro. L’elefante appare improvvismente. Immenso, instabile, con quel serpente ancora stretto attorno, come se fosse un duello eterno, e in mezzo a quella lotta siamo finiti anche noi, estranei alla battaglia ma in piena traiettoria.
OSSERVAZIONE
Rimango incollato al finestrino. Non parlo, non mi muovo, non distolgo lo sguardo. Tengo la fronte appoggiata al vetro, il collo piegato in una posizione innaturale, ma non lo correggo. Non voglio perderlo.
L’elefante, ogni tanto riappare. Lo vedo per pochi secondi, tra i rami, tra una curva e l’altra, mentre la macchina cambia direzione o si affaccia su un piccolo tornante. È lontano, sempre più lontano, ma ancora visibile. C’è. Si muove. Barcolla, ma è vivo. E io voglio sapere se ce la fa. Voglio vederlo scrollarsi di dosso quella bestia, voglio vederlo resistere.
Ma la foresta non me lo permette. Ogni tornante è una barriera. Alcuni ci portano sotto gallerie fitte di alberi, veri e propri tunnel verdi dove la luce si spezza in frammenti e la vista svanisce completamente. Altri ci spingono verso il basso, lungo pendii stretti dove la vegetazione sale da entrambi i lati, cancellando ogni orizzonte. A tratti la strada si stringe così tanto che sembra di essere inghiottiti. E in quei momenti non vedo nulla. Solo il riflesso del mio viso nel vetro, e una scia di luce tremolante che si muove sopra le foglie.
Ma io resto lì. Non smetto. Anche quando il terreno cambia, anche quando la strada si inclina o il sedile sobbalza, anche quando rischio di sbattere contro la portiera a ogni curva, io continuo a cercare. Con lo sguardo traccio una linea invisibile oltre gli alberi, una traiettoria mentale che segue l’elefante anche quando non si vede. Provo a immaginarne il percorso, la direzione, la forza residua. Provo a sentirlo attraverso la giungla, come se il suo peso lasciasse un’eco nel terreno.
E poi succede.
La strada si infila sotto un passaggio scavato nella terra, un tunnel naturale incassato sotto una radice colossale, larga come un ponte. Entriamo nell’ombra densa di quel passaggio, e proprio mentre la luce scompare, un tuono sordo esplode sopra di noi.
L’elefante. Ci salta sopra.
Un attimo prima non c’è, e un attimo dopo è tutto ciò che vedo. La sua massa gigantesca si libra, per un solo secondo, sopra la jeep in corsa. Il serpente è ancora attaccato a lui, avvolto attorno al torace, la testa piegata all’indietro come per cercare equilibrio. Passano sopra di noi come un’onda di carne e fango, come una montagna viva che urla nel silenzio.
Non posso che restare lì, incollato, paralizzato, rapito da quella visione. Maestosità pura. Due forze gigantesche che si affrontano senza mediazione, in lotta per la sopravvivenza, senza pensiero, senza regole, solo con il corpo, con la volontà di resistere un secondo in più. E io, sotto, al buio, a osservare.
Il tunnel finisce. La luce torna. L’ombra svanisce. Il rumore si spegne.
Io non mi muovo. Continuo a guardare fuori.
RITORNO
Continua a comparire, ogni tanto. L’elefante. Sempre più lontano, sempre meno presente. Ogni volta che lo intravedo tra gli alberi o oltre una curva, è più piccolo, più fioco. Ma c’è ancora. E io continuo a seguirlo con lo sguardo, ostinato, come se potessi accompagnarlo solo così, con gli occhi. La sua massa enorme è ormai una sagoma stanca che si muove tra i rilievi, una creatura che lotta ancora, anche se non so per quanto. Il serpente non si vede più. Forse è caduto. Forse ha vinto. Forse si è stretto fino a scomparire dentro di lui. Ma non importa. Io seguo lui. Solo lui.
Resto incollato al finestrino, come da sempre. Il vetro è tiepido ora, e il mio respiro disegna aloni che non cancello. Non mi muovo. Tengo gli occhi aperti, spalancati, aggrappati a quel punto in lontananza. La strada scende, la luce cambia, gli alberi si diradano. Il paesaggio si apre, e l’elefante diventa un frammento, un’eco, un ricordo in movimento. Eppure lo seguo. Lo seguo con uno sguardo che non vuole più tornare indietro.
E piano, senza rendermene conto, qualcosa scivola. Sento la tensione che si abbassa dalle spalle come un lenzuolo. Le mani si rilassano. Il respiro si fa più lento. Penso agli altri — quelli rimasti dietro, quelli che forse stanno ancora aspettando. Ma è un pensiero che passa, come un ramo nel vento. Non si ferma.
Davanti a me, il punto si rimpicciolisce ancora. Diventa instabile, tremolante, quasi trasparente. Lo guardo mentre si dissolve tra le pieghe del paesaggio, come una stella che svanisce all’alba. I miei occhi si incrociano, lentamente, si confondono. Il punto si sdoppia, poi si fonde, poi scompare.
Resto lì. Sospeso. Un istante ancora. Come se il mondo fosse trattenuto da un solo filo sottile.
Poi, senza un motivo, senza un suono, senza un tocco —
Mi sveglio.
