top of page

Durata: 13m

Apro gli occhi.

Sono in piedi, il collo già teso verso il cielo. Vedo il mio corpo da dentro, e ne sento il peso concentrato tutto nei piedi, la tensione nei muscoli del collo, l’aria che sfiora il viso. Non saprei dire da quanto tempo.

Resto immobile, eppure già in posizione. Capisco che nulla va cambiato — il corpo sa cosa fare meglio di me, e mi trattiene lì, bloccato in una postura precisa, parte di una formazione rituale. I piedi sono piantati a terra, le braccia lungo i fianchi.

So di non essere solo. Lo sento più che vederlo: corpi fermi, disposti con cura intorno a me, tutti già immersi in qualcosa iniziato prima. Nessuna paura. Solo una calma irreale. Forse tre file, forse cinque o sei persone per riga — ma contarle richiederebbe voltarsi. E voltarsi è impossibile. Il corpo resta inerte. Io sono nell’ultima, al centro. Davanti a me, solo profili immobili, avvolti in abiti lunghi, fusi nell’ombra blu della notte.

Indossiamo tutti la stessa tunica: un saio pesante, blu porpora, dal tessuto ruvido e opaco. Cade dritto fino alle caviglie, stringe le maniche ai polsi e copre la testa con un copricapo profondo. Chi ce l’abbia dato, o quando l’abbiamo indossato, resta ignoto. So solo che è su di me, e che ogni pensiero di aggiustarlo, ogni impulso a toccarlo, si dissolve prima ancora di nascere.

Nessuno parla. I corpi restano fermi. Siamo in un campo, una grande spianata coltivata — forse grano. Le spighe ci arrivano alle ginocchia, mosse appena da una brezza piacevole. Tutto è illuminato dalla luna, enorme, bassa sull’orizzonte, così chiara da scolorire il mondo.

Non c’è suono, solo il rumore sordo della mia respirazione e quel ronzio sottile che pulsa nelle orecchie, come un silenzio troppo teso per essere vero. Cerco di mantenere lo sguardo fermo, ma gli occhi si spostano da soli. Scivolano, lenti, alla ricerca di un appiglio, una direzione, una spiegazione. Vogliono capire dove siamo, cosa stiamo facendo, e soprattutto cosa — o chi — stiamo aspettando.

Nessuno ha detto di guardare verso l’alto, eppure lo stiamo facendo. Uno dopo l’altro, in silenzio, il pensiero si è diffuso tra noi senza bisogno di parole. Anche la mia testa comincia a muoversi, lentamente, contro ogni tentativo di controllo.

Poi, tra le figure davanti, ne noto una diversa. È nella prima fila, perfettamente al centro, e ha il volto scoperto. Gli altri tengono il capo nascosto nell’ombra del cappiccio; lei no. La pelle è chiarissima, immobile sotto la luce fredda. Intorno al collo porta una corda rossa, sottile ma ben tesa, che scende lungo il petto e scompare tra le pieghe del saio con una curva netta, precisa, come un taglio tracciato con cura.

Non so cosa significhi: un simbolo, un vincolo, una distinzione. Ma so che è l’unica a portarla, e che nessun altro sembra accorgersene. Nessuno si gira. Nessuno cambia postura. Solo io.

C'è qualcosa nella sua presenza che altera l’aria. Il silenzio, vicino a lei, pare più fitto, più reale. È sufficiente la sua immobilità per trattenere qualcosa. E a noi non resta che fare da scudo. O da testimoni.

Il cielo, sopra di noi, resta immobile. Il campo anche. Eppure, nel cuore di quel silenzio teso, sento che qualcosa si sta avvicinando. Non è visibile, ma lo percepisco — sotto la pelle, nelle ossa, in un punto profondo che sfugge a ogni nome.

La mia testa è ormai completamente sollevata. In quella postura rigida, tesa tra l’ubbidienza e l’istinto, rimango. In attesa.

E mentre l’attesa si tende, qualcosa nello sguardo cambia. Un’ombra si insinua nella luce, senza rumore, senza contorni.

NAVICELLA

La sua comparsa non ha avuto un momento preciso.

Ma ora è lì. Sopra di noi, sospesa come un pensiero che prende forma solo quando smetti di volerlo capire.

All’inizio i contorni sfuggono. Una massa grigia, ovale, fluttua a qualche decina di metri sopra di noi, immersa nella luce lattiginosa della luna. Nessun riflesso, nessun bagliore. Il colore è piatto, opaco, privo di ombre o riferimenti. Una forma familiare, forse troppo: un ovale perfetto, come quelli disegnati nei quaderni di scuola o immortalati nei vecchi archivi fotografici sugli oggetti non identificati.

Sembra più una rappresentazione che una macchina. Una forma scelta apposta: l’immagine più semplice che potessimo comprendere.

Si muove lentamente, in modo uniforme. Nessuna vibrazione, nessuna alterazione nell’aria circostante. Le spighe restano dritte, la brezza immutata.

Eppure qualcosa cambia. La pressione sul petto e sulle tempie cresce, quasi a segnalare l’avvicinarsi di una presenza. L’atmosfera si ispessisce. È come una campana trasparente che cala su di noi, comprimendo ogni suono, ogni respiro.

Poi comincia il rumore. Non è immediato, e sfugge a qualsiasi suono conosciuto. È un tono continuo, basso e largo, che bypassa le orecchie e si insinua direttamente dentro il cranio. Prima un ronzio, poi un fischio profondo, infine una vibrazione indistinta che occupa ogni spazio del pensiero. Il fastidio cresce, come una pressione subacquea che spinge da dentro, e d’istinto apro la bocca per alleggerire la tensione.

Mi torna in mente un’immagine vaga, forse un ricordo, forse solo qualcosa sentito da bambino: i minatori, prima di un’esplosione nella cava, aprivano la bocca per attutire l’onda d’urto ed evitare di spezzarsi i timpani.

Un gesto semplice, istintivo, di difesa. Lo faccio anch’io, senza pensarci davvero: il corpo sa già cosa fare, prima ancora che arrivi il suono.

Vorrei piegarmi, portare le mani alle orecchie, ma il corpo resta immobile. Rimango incastrato nella stessa postura: piedi fermi, braccia lungo i fianchi, testa alzata. Lo sforzo cresce, ma ogni deviazione è preclusa. Qualcosa di esterno, invisibile, ci trattiene in forma, incastonati in una geometria precisa, statue rituali.

L’oggetto ora è sopra di noi, in posizione fissa. Non enorme, ma abbastanza ampio da oscurare una porzione del cielo. Nessuna luce visibile, nessun segno di accesso. La superficie appare uniforme, quasi viva. A tratti sembra respirare: una pulsazione lenta, appena accennata, il gonfiarsi e sgonfiarsi di un tessuto organico sotto pelle.

Resta sospesa per un tempo indefinito. Immobile, silenziosa. Poi comincia a scendere — lentamente, con una regolarità disarmante. Il movimento avviene senza suono, senza variazioni nell’aria o nella luce. Il campo rimane inalterato: le spighe restano dritte, integre, identiche. L’oggetto scivola verso il basso senza peso, senza attrito tra sé e la terra.

Quando si ferma, a pochi metri dal suolo, nessun segnale annuncia l’arrivo. Non tocca nulla. Semplicemente, smette di muoversi. Resta sospesa, davanti a noi. Presente.

DISCESA

L’oggetto resta lì, sospeso a pochi metri dal terreno, silenzioso e immobile, trattenendo il fiato. Nessuna apertura visibile, nessun portellone.

Eppure, a un certo punto, qualcosa cambia.

Nessun clangore, nessuno sfiato d’aria. Solo silenzio, denso e assoluto.

Una trasformazione quasi impercettibile: una porzione della superficie si dissolve — o forse si ritrae all’interno, pelle che si assorbe — lasciando un’apertura circolare. Da lì si sprigiona una luce opaca, pallida, priva di una fonte visibile. Non brilla. Ma circonda.

Dalla cavità emergono figure. All’inizio sono solo ombre nella luce. Poi, lentamente, diventano corpi. Scendono uno dopo l’altro, senza scale né rampe. Non camminano, né si librano. È uno scivolamento controllato, un calare privo di peso, sospinti da una forza invisibile.

 

Sono dieci. Alti, sottili, completamente nudi. La pelle — se di pelle si tratta — è di un marrone opaco, tendente al bronzo. Non lucida, ma nemmeno ruvida. Sembra assorbire la luce più che rifletterla. I corpi sono umanoidi, con proporzioni allungate: braccia troppo lunghe, gambe sottili, mani grandi con dita affusolate che sembrano più articolazioni che falangi. Il torace è piatto, il ventre senza rilievi evidenti. Nessun sesso visibile, nessun dettaglio superfluo.

Il volto è forse la parte più disturbante. Non perché sia mostruoso, ma perché non resta mai del tutto fermo. I lineamenti si spostano lievemente, come onde sotto una superficie vischiosa. Gli occhi sono larghi, neri, senza riflesso. Nessuna bocca visibile, o forse sì, ma troppo sottile per esserne certi. Osservarli troppo a lungo provoca una leggera vertigine, un senso di disordine che il cervello fatica a contenere.

Una volta raggiunto il terreno — o quel punto sospeso appena sopra di esso — si dispongono con una precisione speculare alla nostra. Tre file, la stessa distanza, la stessa immobilità. Si fermano esattamente di fronte a noi. Il campo pare misurato, predisposto da tempo, come in attesa del nostro arrivo.

 

Non parlano, nessun suono esce da loro. Non dominano la scena, non impongono la loro presenza. Stanno lì, fermi, nella stessa postura che anche noi manteniamo da tempo imprecisato. Eppure è evidente: si tratta di un incontro. Forse un rito.

Dal loro centro, una figura si muove in avanti. Dal nostro, ne avanza un’altra. Poi un’altra, e un’altra ancora, da entrambe le parti. Tre per lato. Sei in tutto. I passi sono lenti, misurati. Il suolo resta muto sotto il loro peso. Ogni movimento avviene come sospeso, senza gravità, ma con un contatto costante con la terra.

Si incontrano a metà strada tra le due delegazioni. Non si toccano. Nessuno allunga una mano, nessuno si inchina. Restano a distanza di un passo. L’aria tra loro vibra in un modo difficile da descrivere: lo spazio si ispessisce, acquista una presenza concreta, quasi tangibile.

Tra le tre figure avanzate dalla nostra parte, c’è lei. La riconosco dal volto scoperto, dalla pelle chiarissima, e dalla corda rossa che le attraversa il petto come un segno tracciato con cura. Anche ora nessuno sembra notarla — nessuno si gira, nessuno reagisce. Ma lei è lì, perfettamente visibile, perfettamente immobile.

Il silenzio, intorno a lei, si fa ancora più denso. È sufficiente la sua presenza per trattenere qualcosa. E a noi non resta che fare da scudo. O da testimoni.

SCAMBIO

I sei rimangono fermi, fronteggiandosi in quel punto neutro tra le due delegazioni. Nessuno parla, nessuno fa un passo indietro. L’aria pare più densa, qualcosa si è depositato intorno a loro, invisibile ma reale. Il campo resta silenzioso, la luna sospesa sopra di noi, e l’attesa si cristallizza in una lentezza assoluta. Anche il tempo, ora, sembra osservare.

Solo ora noto che uno dei tre umani — quello più vicino al centro — tiene una sacca tra le mani. Non saprei dire da quanto. Forse l’ha sempre avuta con sé, ma finora mi era sfuggita: io sono in terza fila, lui era davanti, e l’abito la celava. Oppure semplicemente non ero pronto a notarla.

Ora la porge del tutto, in un gesto calmo e definitivo. La solleva all’altezza del petto e la lascia lì, sospesa, con la certezza che sarà raccolta. E così accade. L’essere di fronte tende le braccia — se così si possono ancora chiamare — e la sacca si solleva da sola, attratta da una forza silenziosa, adagiandosi tra le sue dita allungate.

Solo allora, qualcosa si muove anche tra Loro.

Dalle retrovie, lungo una linea precisa e fluida, un oggetto viene fatto avanzare. Passa di mano in mano — se mani possono chiamarsi — con gesti lenti e misurati, come in una consegna rituale. Non sembrano averlo estratto da qualche parte: era lì, semplicemente nascosto alla vista, forse trattenuto dall’ultimo della fila, come un dono da svelare solo al momento giusto.

Quando raggiunge il centro, uno dei tre lo accoglie.

Si tratta di una forma cava, pulsante. Sotto la luce lunare, rivela venature mobili, riflessi vivi, respira. È difficile dire se contenga qualcosa — o se sia qualcosa.

La consegna è lenta, quasi solenne. L’essere si avvicina fino a colmare la distanza tra lui e l’uomo centrale. Non sfiora, non emette alcun suono. L’oggetto percorre gli ultimi centimetri sospeso, guidato da una memoria invisibile, aderendo alla forma che lo attende. Si adagia nelle mani dell’uomo con una precisione deliberata, inevitabile.

L’uomo lo accoglie senza alzare lo sguardo. Il capo lievemente chinato, le mani strette sull’oggetto, già consapevole della sua delicatezza o del suo peso. Il silenzio attorno si fa più fitto, più definito.

I tre umani restano immobili. Restano rivolti in avanti, senza cercare il nostro sguardo o il nostro consenso. Ma qualcosa nel modo in cui si tengono — più centrati, più quieti — lascia intendere che siano cambiati. Non più semplici intermediari, ma portatori. Custodi.

Dall’altro lato, i tre esseri tornano alle loro posizioni con la stessa lentezza con cui erano avanzati. Nessuna traccia, nessuna variazione nei volti. Il loro ritorno è un riflesso esatto dell’andata, e anche questo fa parte dell’ordine che ci contiene.

Ora le due delegazioni sono di nuovo disposte l’una di fronte all’altra. Dieci e dieci. Nessuna parola è stata pronunciata. Nessun segnale è stato dato. Ma qualcosa è passato di mano, e la sua presenza è evidente.

Ed è chiaro, a tutti, che basta questo.

RISVEGLIO

La sveglia suona. Ma è come se arrivasse da un altro piano.

Sento odore di terra. Calda. E di grano.

È la prima cosa che mi raggiunge, prima ancora della luce o del pensiero. Un odore estraneo alla stanza, che non dovrebbe essere qui.

Apro gli occhi. Sono sdraiato. Ma il corpo è rigido, come se non avesse mai smesso di stare in piedi. Le braccia lungo i fianchi, il mento leggermente alzato, lo sguardo fisso sul soffitto. Una postura innaturale per dormire, eppure perfetta. Come quella di prima. Come nel sogno.

Non mi muovo. Il respiro è corto, concentrato nel petto.

Sento il peso del corpo, ma anche un’assenza. Le mani sono chiuse. Contratte. Come se avessero stretto qualcosa a lungo.

Le apro. Sono vuote. Eppure, la sensazione resta.

Non so che ora sia. Non mi volto. Non cerco il telefono.

Resto così, immobile, come se il gesto successivo potesse rompere qualcosa. O svegliarmi davvero.

So che è successo qualcosa. Non so cosa abbiamo preso, né cosa abbiamo dato.

Ma qualcosa è passato. Qualcosa è stato affidato. E io ero lì.

E ora sono qui. E non so cosa ho portato con me.

GLOSSARIUM:

mio sample

bottom of page