Durata: 13m
Sono in macchina. Sto guidando.
Non saprei dire da quanto, ma le mani sono incollate al volante. La strada davanti a me scorre a nastro. La sabbia è ovunque: nel filtro dell’aria, negli occhi, nei pensieri. E ogni tanto invade anche la carreggiata, in lingue irregolari che fanno sbandare la macchina, costringendomi a tenere le mani salde sul volante.
La strada è tutta una sequenza di curve strette, tornanti improvvisi e rettilinei troppo brevi per prendere fiato. Devo stringere il volante con forza, sempre, perché a ogni svolta il deserto si riversa sull’asfalto, una lingua viva che ci tira fuori traiettoria. Basta un attimo per perdere il controllo. Ogni volta che giro bruscamente sento i corpi dietro di me sbattere contro i sedili e le portiere, e lei — la ragazza ferita — geme più forte, strozzata da un dolore che peggiora a ogni scossone. Ma non posso fare diversamente. Sento che devo correre. Non posso rallentare, non posso essere cauto. Se rallento, ci prendono. Se sbaglio una curva, moriamo.
A ogni curva, case sparse compaiono all’improvviso, nascoste fino all’ultimo secondo, custodite dalle dune e dai tornanti. Sono costruzioni semplici, villettine basse con facciate sbiadite e tetti a falda, completamente fuori posto in questo paesaggio arido. Sembrano strappate da un quartiere piovoso e fresco e piantate nel mezzo del deserto. E invece sono lì, incastonate tra la sabbia e il nulla, in attesa o in fuga quanto noi.
E in mezzo a tutto questo, quel piede sul cruscotto della ragazza la mio fianco continua a muoversi, indifferente a tutto ciò che sta accadendo.
FUGA
La sensazione è precisa, inequivocabile: sto scappando.
Una seconda consapevolezza affiora subito dopo, un’onda che segue l’altra: sono una spia. È per questo che scappo. È questo il motivo della corsa, della paura, del silenzio rotto solo dal respiro e dal motore che fatica.
Ma non ricordo per chi. Non so se sto tradendo o venendo tradito, se porto informazioni rubate o se sono io l’informazione. So solo che corro. E non sono solo.
In macchina siamo in quattro. Una ragazza siede accanto a me, le gambe nude appoggiate con perfetta noncuranza al cruscotto. Non parla, non guarda. Sembra completamente a suo agio in mezzo al caos.
Dietro, invece, la tensione è palpabile. Una figura si contorce in preda al dolore, stringe il braccio con la mano opposta: c’è sangue, tanto sangue. L’altra — forse suo fratello, forse un amico, forse un estraneo — tenta di fermare l’emorragia con una maglietta arrotolata. Le urla sono soffocate, ma presenti, come uno sfondo continuo di disperazione trattenuta.
Nello specchietto: occhi larghi. Panico. Dita che tremano.
Ma non è solo silenzio e terrore contenuto: l’abitacolo è attraversato da grida lancinanti. Lei urla dal fondo con la voce spezzata dal dolore, piegata in due sul braccio insanguinato, mentre lui — fradicio di sudore, fuori di sé — prova a tamponare la ferita con movimenti goffi e inutili, urlando parole sconnesse, cariche di panico.
Il caos si è fatto carne, e vibra tutto intorno a noi.
Dentro l’abitacolo l’aria è densa, impastata di caldo, paura e sudore. Il deserto fuori ci circonda, un animale in agguato.
Ma l’unica persona calma — e per questo ancora più inquietante — è la ragazza seduta al mio fianco.
Nonostante la strada serpentina, nonostante la macchina sbandi di continuo per colpa di queste maledette lingue di sabbia che invadono l’asfalto curva dopo curva, e nonostante le urla continue che arrivano dal sedile posteriore, lei resta lì, a giocherellare con i piedi sul cruscotto.
Poi, con una naturalezza disarmante, si sporge appena verso lo specchietto laterale e dice:
“Uh. Ci hanno raggiunto.”
Dietro non battono ciglio, o forse non riesco a vedere se lo fanno, perché tutto è confuso e affannato, ma sento una voce maschile uscire da quel caos — una voce distrutta, impastata di urla, pianto e bava — che dice con tono grave e stanco, quasi fosse un frammento di lucidità affiorato all’improvviso:
“Siamo quasi arrivati, gira a destra quando te lo dico.”
Non chiedo nulla, non rispondo, tengo gli occhi fissi sulla strada e le mani strette al volante, ma sento il corpo che si irrigidisce, il respiro che si fa più corto. Passano pochi secondi, o forse minuti — il tempo qui dentro non ha più regole — poi quella voce esplode, più forte e tagliente:
“GIRA A DESTRA!”
Sterzo di colpo, senza nemmeno pensare, e la macchina sbanda ancora una volta sulla sabbia che invade l’asfalto, ma riesco a tenerla. Giriamo dietro un tornante che sembrava identico agli altri, e all’improvviso — con una naturalezza inquietante — vedo una casa comparire davanti a noi, seminascosta tra le dune, con un ingresso aperto che sembra aspettarci. Un garage.
Non capisco come abbiano fatto a saperlo, né se davvero era lì anche un attimo prima, ma non ho il tempo di farmi domande: entro di slancio, il piede va sul freno all’ultimo secondo e il cofano si ferma a pochi centimetri dal muro. Il motore tossisce e si spegne, e per un istante resta solo il suono della mia respirazione veloce e il peso di quello che è appena successo.
Incredibile che ce l’abbia fatta. Incredibile che quella casa fosse lì davvero. Incredibile che non siamo esplosi contro qualcosa.
CASA
Spalanco lo sportello con un gesto secco e ci lanciamo fuori dall’abitacolo, pronti a scappare da un’esplosione che potrebbe arrivare da un momento all’altro. Il sole ci colpisce in pieno, senza pietà, e l’aria è ancora più densa fuori che dentro. Corriamo trascinando i nostri corpi esausti. Lui apre il bagagliaio con una mossa rapida, tira fuori un telo scuro e lo getta sopra la macchina in pochi secondi, senza dire nulla, seguendo un gesto rodato, familiare, quasi automatico. Io lo guardo un istante, incredulo: anche questo lo aveva previsto?
Corriamo verso la casa. Nessuno bussa, nessuno si guarda intorno. Entriamo dritti, con la naturalezza di chi rientra in un luogo già noto. Io, invece, sto ancora cercando di capire dove sono finito.
Di chi è questa casa? Non ne ho idea. Ma lui sì, pare. Trascina la ragazza ferita dentro con urgenza ma senza panico, con la sicurezza di chi conosce già ogni stanza, ogni svolta.
L’altra — quella calma, quella che sembrava giocare con i piedi mentre il mondo crollava — entra per ultima, con passo lento, e si guarda attorno con la tranquillità di chi rientra da una passeggiata serale al mare. Non sembra minimamente coinvolta nella corsa, nel sangue, nel rumore. Tutto questo, a vederla, non la riguarda.
Chi diavolo sono queste persone?
Io entro per ultimo, ancora col fiatone, e mi ritrovo in un ingresso fresco, quasi buio, con pareti chiare e pavimento in pietra. L’interno è semplice, ma vissuto, pieno di oggetti che non riconosco ma che per loro sembrano ovvi. Li osservo muoversi con naturalezza, padroni dello spazio, sicuri di ogni gesto, come se ci fossero già stati mille volte.
Il ragazzo porta la ferita direttamente in bagno, sa esattamente dov’è, e chiude la porta dietro di sé. Da dentro iniziano a sentirsi voci ovattate, rumori d’acqua, vetri spostati.
La ragazza disinteressata — lei no, non ha bisogno di chiedere niente a nessuno — va dritta in cucina, apre il frigorifero senza esitare e ne tira fuori una bottiglia d’acqua. Non mi guarda nemmeno, inclina appena la testa verso di me e, senza dire una parola, mi mostra la bottiglia come per chiedermi se ne voglio. Poi prende due bicchieri da una mensola, li riempie. Un gesto semplice, ma talmente sicuro da sembrare rituale.
Versando l’acqua nel mio bicchiere, si ferma a metà. La mano resta sospesa, il flusso interrotto. Strizza un orecchio, inclinando appena la testa verso il bagno, cercando di captare qualcosa al di là della porta.
Riprende a versare e, quasi contemporaneamente, alza la voce in direzione del bagno, con una sicurezza che spiazza:
“SONO PASSATI. NON CI HANNO SCOPERTI. SIAMO SALVI.”
Lo dice con tono netto, come un dato oggettivo, percepito nell’aria con la stessa naturalezza con cui si sente un cambio di vento.
Io non capisco a chi si riferisca — chi sarebbero “loro”? Da dove sarebbero “passati”? — ma non faccio in tempo a chiedere.
Prende i due bicchieri d’acqua con una calma quasi cerimoniale e, senza dire nulla, mi fa un cenno con la testa:
“seguimi”
La seguo in silenzio, con il bicchiere ancora mezzo pieno tra le mani sudate, mentre lei imbocca un corridoio e poi comincia a salire delle scale strette. Le urla della ragazza ferita rimbalzano nel corridoio alle nostre spalle — voci concitate, oggetti che si spostano, il rumore secco dell’acqua che scorre e qualcuno che impreca. Lei non si volta, non accelera né rallenta, semplicemente avanza. Sta portandomi via da lì. Sta portandomi in un altro spazio.
Saliamo fino al primo piano, ma non si ferma. Davanti a noi, in fondo a un disimpegno corto, c’è una scaletta verticale che porta a una botola. Lei la apre con naturalezza, con il gesto sicuro di chi l’ha già fatto cento volte, e si arrampica prima di me.
Io la seguo, tenendo il bicchiere con attenzione, e quando esco mi ritrovo sul tetto. Il sole ci investe senza filtro. L’aria vibra. Il calore sembra piegare lo spazio. Ci sediamo su una piccola sporgenza in cemento, fianco a fianco, e finalmente beviamo.
Mi volto, e davanti a noi ci sono le piramidi.
Non so come sia possibile.
Non so se sono vere o solo un’illusione, ma sono lì, lontane ma visibili, stagliate nell’aria tremolante come un miraggio che non svanisce.
Finiamo il bicchiere d’acqua in un silenzio religioso, guardando le piramidi in lontananza.
Non saprei dire quanto tempo sia passato. Potrebbero essere stati minuti o ore, ma in quel momento il tempo non contava.
Bevevamo lentamente, respirando con fatica, e ogni sorso sembrava avere il compito di riportarci alla realtà. Quando si alza, la seguo in silenzio.
Scendiamo con cautela la scaletta in metallo, richiudiamo la botola e torniamo giù per le scale.
Solo allora mi rendo conto di quanto fosse accecante la luce fuori. Dentro, tutto appare più scuro, ma non è buio: i miei occhi, anestetizzati dal sole, stanno ancora cercando di ricalibrare la realtà.
SALONE
Scendiamo tutte le rampe, fino a tornare nel salone. L’ingresso è lo stesso di prima, ma la scena è cambiata: ora le altre due persone non sono più in bagno.
La ragazza ferita è distesa sul divano, con una fasciatura larga sulla spalla, bianca e ben stretta. Tiene una mano appoggiata sopra la benda, come per controllare che sia ancora lì. Ha lo sguardo fisso nel vuoto, la bocca leggermente aperta. Non parla. Sembra altrove.
Lui è seduto con le mani sul volto, come schiacciato dalla scena.
L’altra ragazza — quella calma — è accanto a lui. Non fa nulla se non giocherellare con il bicchiere vuoto, cercando di farlo restare in equilibrio inclinato, una distrazione assurda, stonata, come se ignorasse di essere lì. Io non so dove sedermi, ma poi mi lascio cadere su una poltrona bassa, con un sospiro.
Non conosco i loro nomi, non ho idea di cosa stiamo facendo davvero. Ma in quel momento, l’unica cosa che voglio è starmene fermo, rilassarmi, e respirare quest’aria finalmente fresca.
Non dura molto.
Lui — quello che ha coperto la macchina — si alza di scatto da uno sgabello accanto alla porta e comincia a parlare. O meglio: a vomitare parole, un fiume in piena.Ha con sé una valigia compatta, da 24 ore, in pelle nera. La stringe con una mano, mentre con l’altra agita il dito e indica la macchia rossa che spicca al centro, una ferita aperta nella pelle.
“Tutto a puttane! Tutto! Non dovevamo essere così avventati! Ve l’avevo detto, mille volte!”
Le braccia si alzano e si abbassano, gesticola come un direttore d’orchestra furioso che dirige una sinfonia stonata fatta di rabbia, accuse, frustrazione.
Urla da solo. Nessuno gli risponde. Le due ragazze non reagiscono: una ha lo sguardo svuotato, quasi sedata; l’altra continua a far ruotare il bicchiere, con lentezza ostinata, cercando di convincerlo a camminare.
Io lo guardo, cerco di seguire, ma non ci riesco. Le sue parole arrivano, rimbalzano, si accavallano, ma non si fissano nella mia testa. Capisco che è arrabbiato. Capisco che qualcosa è andato storto. Ma non so cosa. E in fondo, non so nemmeno più dove siamo. Né perché. Sento la tensione nella stanza, ma non ne sono più travolto. È tutto troppo ovattato, troppo lontano. Sto affondando lentamente in una nebbia tiepida che smorza i rumori e mi stacca da tutto. Mentre lui continua a urlare e a gesticolare, io smetto di ascoltare. Le sue parole diventano rumore bianco, un flusso continuo che non riesco più a seguire. Non mi resta che lasciarmi cullare da quella voce distante, dal bicchiere che rotola sul tavolo, dal silenzio stanco delle altre due. Mi sento sempre più distante. Scivolo via, lentamente, da quella stanza, da quel momento, da quel corpo. Gli occhi si chiudono da soli, senza opporre resistenza.
E il buio arriva, portando tregua.
Quando li riapro, sono nel mio letto.
La stanza è immobile, in penombra.
La sveglia batte insistente accanto a me: le 17:00.
Il riposino pomeridiano direi che è finito.
Ma la gola brucia ancora.
Forse la sete era reale.
O forse ho solo la febbre.
