Durata: 10m
Sono con due anime, che fluttuano accanto a me: gialle, bianche, sfumate ai bordi, prive di forma stabile. La loro presenza pulsa appena — una luce che si espande e si ritrae, ogni respiro le fa battere in un ritmo irregolare e silenzioso.
Sento un leggero calore, intermittente, che segue la stessa oscillazione della luce.
Il loro movimento è spezzato: piccoli scatti, sobbalzi lievi, disturbate da qualcosa. Non sembrano in pace, ma nemmeno in pericolo. Solo attraversate da una tensione invisibile. Cambiano forma mentre respirano, con leggere increspature che le attraversano dall’interno.Non hanno occhi, né bocca, né arti riconoscibili, eppure sembrano percepire ogni cosa. Hanno una sagoma vagamente umana, ma senza contorni, disegnate sulla nebbia.
Anch’io, forse, appaio così. Percepisco la stessa condizione: nessun arto, solo una mente che si muove, un pensiero che galleggia.
Non hanno un volto, né un nome, ma qualcosa in loro mi è familiare. Non so dire da dove venga — se da un ricordo lontano, o da una parte di me che li riconosce senza esitazione. Le sento vicine in modo istintivo, come si sente la presenza di chi non ha bisogno di parlare. Una delle due emana un calore più intenso, una luce più ampia: il suo respiro è profondo, pieno. L’altra pulsa in modo più leggero, con un ritmo appena accennato, ma stabile. Le percepisco diverse, due età distinte, due stadi di un cammino che ancora non conosco. Io sono il più giovane. Lo capisco dal modo timido e incerto in cui il mio respiro cerca ancora un ritmo, mentre il loro — seppure diverso — è sicuro, regolare.
SOPRA
Il cielo sopra di noi è nero pece, compatto, senza profondità. Nessuna stella, nessuna apertura. Un buio assoluto. Cerco la luna, o almeno una stella — qualcosa che mi orienti. Ma non trovo nulla. Solo buio, pieno e muto. Sotto quel cielo cieco, la città è illuminata. Non da un sole, né da lampade visibili, ma da una luce uniforme, proveniente da altrove. Una fonte che non si mostra, ma che rischiara ogni cosa con chiarezza innaturale. Tutto è visibile: le strade interrotte, le pareti sgretolate, le forme scomposte degli edifici. Ma questa luce non genera ombre. Il paesaggio appare piatto, sospeso, inciso su una superficie opaca. Il tempo qui sembra essersi messo da parte. Tutto resta in attesa.
SOTTO
Allargo lo sguardo. Una spinta interiore mi porta a guardare più in profondità. E sotto di noi, lentamente, affiorano i segni: linee rette, angoli spezzati, sagome crollate. Stiamo fluttuando sopra ciò che resta di un luogo che, un tempo, doveva essere vivo. Un paesaggio frammentato si stende fino all’orizzonte: tracciati interrotti, geometrie spezzate, perimetri che non delimitano più nulla. Nessuna vita, nessun movimento. Solo silenzio e disegno. Eppure non provo disagio, né paura o tristezza: mi sento calmo, vuoto. Nessun sentimento prevale. Solo una sospensione. Le costruzioni non hanno tetti, né piani superiori. Sono basse, squadrate, interrotte. Blocchi che non comunicano tra loro. Nessuna stanza riconoscibile, nessun oggetto. Solo tracce di un disegno interrotto. Non sembrano rovinate, ma mai davvero completate. La vita non ci è mai entrata, e il tempo ci è solo passato sopra. Da dove siamo — forse dieci metri dal suolo — posso vederla tutta: una distesa ocra, granulosa, sabbiosa, senza alberi né ombre. Le case sembrano fatte di mattoni secchi, impastati con paglia e fango. Niente vetro, niente metallo. Solo terra, polvere. Una città nel deserto, consumata dal vento. Non si vede nessuno. Nessun animale, nessuna pianta, nessun volto. Eppure, qualcosa rimane nell’aria. Una presenza sottile: il luogo trattiene ancora il ricordo di ciò che è passato.
Iniziamo a scendere. Lentamente, senza un gesto che decida. Io non guido, non scelgo. Seguo. È un trascinamento leggero, guidato da un filo invisibile, sottile ma presente, che mi unisce alle due anime. Non è contro la mia volontà: è qualcosa che riconosco, che accetto.
DENTRO
La più anziana si muove con cautela, alla ricerca di qualcosa che le appartiene. È lei che sembra riconoscere questo luogo più di chiunque altro. L’altra mantiene il ritmo. Non guarda indietro, non guarda avanti. È lì per tenere il filo. Non conosce questo posto come la prima, ma si muove con sicurezza, con la calma di chi ha imparato a restare. Il suo respiro non cambia mai. Io resto in mezzo. Né guida, né custode. Fluttuo tra le due, sorretto dalla loro presenza. La più anziana si arresta davanti a un muro crollato. Ci è arrivata dopo aver cercato a lungo, guidata da un’intuizione silenziosa. Ha esplorato ogni dettaglio, fino a fermarsi in un angolo protetto da tre pareti — un frammento di stanza che potrebbe essere stata qualsiasi cosa. Resta lì a lungo.Noi ci fermiamo con lei. Resta immobile a lungo, fissando le crepe, intenta a decifrare un messaggio rimasto lì da chissà quanto.
La sua presenza si contrae, poi si espande, trattenendo una voce che non riesce a uscire.
L’altra non si scompone. Mantiene il ritmo, già allineata a ciò che deve accadere.
Non interviene. Resta. Io, invece, comincio a percepire una tensione sottile. Sale lentamente. Non è paura, ma qualcosa che mi attraversa mentre resto in ascolto. Il tempo si dilata. I miei occhi rimbalzano tra le due, in attesa che qualcosa si spezzi, si muova, si apra. Provo a parlare. La mia voce è calma, quasi gentile.
“Stiamo cercando qualcosa?”
Lo dico così, senza enfasi. Ma non succede nulla. Nessuna risposta. Tutto resta fermo. Dentro di me qualcosa preme. All’inizio è un’onda sottile, poi si fa più forte. Sale. E alla fine, lo urlo. Non con la voce — non ne ho una — ma con il pensiero. Denso, preciso:
“STIAMO CERCANDO QUALCOSA?”
Non so dove finisca, ma so che l’hanno sentito. Perché proprio in quell’istante, entrambe pulsano. Una vibrazione simultanea. Una luce che si accende e si spegne. Non è una risposta. Ma è qualcosa. Ed è sufficiente.
Dopo quel segnale, tutto sembra fermo. Nessuna risposta, nessun gesto, eppure qualcosa cambia. Le due anime non parlano, non si muovono visibilmente, ma avverto una variazione sottile nel loro respiro, un orientamento nuovo. Subito dopo, il corpo che non ho comincia a risalire. Non è una scelta: è lo stesso filo che mi ha portato fin qui a tendersi di nuovo, con dolcezza, per sollevarmi.
Le due presenze mi accompagnano, una a destra, l’altra a sinistra. Non mi tengono, ma ci muoviamo insieme. In alto. Sotto di noi, la città si fa piccola; le linee si sfocano, le rovine si confondono, la luce si attenua. L’ascesa potrebbe durare un attimo o un’eternità lieve — non saprei dirlo.
Fluttuiamo in silenzio, senza paura, e ci muoviamo verso un punto preciso: le due anime non esitano, non rallentano. Sanno dove andare.
DISTACCO
Un suono inizia a farsi strada. All’inizio è solo un ritmo regolare, innocuo. Qualcosa nel suo tono, però, lo rende estraneo. Non appartiene a questo luogo. Eppure è lì, e si ripete. Poi lo riconosco: è la sveglia. La solita suoneria del telefono, quella che mi strappa via ogni mattina. Ma questa volta è diverso. Non la sento con le orecchie. La sento ovunque: nei bordi del sogno, nella vibrazione delle due presenze.
Trova un varco e penetra, lenta ma insistente. E da lì comincia a dissolvere tutto. Non con uno strappo, ma con logoramento. Il paesaggio si sfalda. Le due anime rallentano. Stavano per dirmi qualcosa. Lo sento.
Poi il suono cresce. Non diventa più forte — diventa reale. Più reale del sogno. E io non riesco più a restare. È una forza gentile ma inesorabile, che mi tira via.
Avrei voluto sapere.
Avrei voluto restare.
Ma la sveglia suona, e mi sveglio.
